La mia vocazione alla vita paolina è stata una grande scoperta perché non avevo mai visto né sentito parlare in India delle Figlie di San Paolo. Oggi, a distanza di tanti anni, mentre penso alla strada percorsa, ringrazio Dio per le «abbondanti ricchezze di grazia e di misericordia» che ho ricevuto.
Dentro di me il seme della fede e il desiderio di essere una “missionaria” sono stati forti sin della giovinezza; per questo non avevo paura di affrontare i sacrifici, che tra l’altro non sono mai mancati. Ho scritto alle Figlie di San Paolo di Mumbai esprimendo il desiderio di conoscerle, e loro mi hanno invitato ad andare a “vedere”.
Ricordo ancora la partenza dalla stazione accompagnata da tutta la mia famiglia. Di quel giorno due cose sono rimaste scolpite dentro di me: il silenzio assoluto e le lacrime di mio padre. La mia partenza mi richiamava quella di Abramo perché non sapevo dove sarei andata, cosa avrei incontrato… Non conoscevo nessuno e non conoscevo la lingua. Una voce interiore, straordinaria, mi diceva: “Vai avanti! Se vuoi essere una missionaria non devi aver paura”. Era il 10 giugno 1970, e per la prima volta viaggiavo in treno: tre giorni e tre notti, come il profeta Giona nel ventre del pesce. All’arrivo, mi aspettavano le suore.
L’inizio della mia vita paolina è stato segnato da tanta semplicità, gioia e fervore. Subito dopo la professione sono stata chiamata come responsabile della tipografia e poi come maestra delle postulanti.
“Vai, la mia missione non ha confini”
Un secondo appello del Signore è stato quello di fare l’infermiera, lasciare ancora una volta il mio popolo e la mia terra, l’apostolato specifico delle Figlie di San Paolo, per recarmi in Italia, all’Ospedale Regina Apostolorum di Albano. Questa chiamata, all’interno di un’altra chiamata, ha ribaltato tutte le mie aspettative. Sono rimasta senza parole, mi sono sentita come il piccolo Davide davanti al gigante Golia. Piccola, povera, insufficiente, confusa. Mi domandavo: “Perché devo servire in una missione che non è quella che ho scelto tra le Figlie di San Paolo?”. Allora si è fatta sentire una voce gentile nel mio cuore: “Non temere, io sono con te; vai, la mia missione non ha confini”.
Così nel 1987 sono partita ancora una volta dalla mia patria, dal mio popolo, dall’apostolato che amavo tanto. Ho capito che lo Spirito apriva per me un’altra strada, perché è il Signore che muove ogni cosa e chiede una dedizione incondizionata e totale a chi s’impegna a seguirlo. È stato davvero un camminare sui suoi passi, donare la vita per le sorelle e fratelli con coraggio, pazienza e amore.
Essere infermiera paolina in un reparto di onco-ematologia ha richiesto molto sacrificio. Mi ha fatto misurare il limite e l’impossibilità di aiutare a guarire. Il contatto con la sofferenza però è stato anche molto fruttuoso: sono diventata più paziente e ho capito il valore di vivere accanto a chi soffre. La malattia cambia la vita delle persone: «Quando sono debole, è allora che sono forte» dice san Paolo. Ho avuto la possibilità di accompagnare molte persone nell’ultimo tratto della loro esistenza, imparando tanto dai malati e dagli stessi colleghi di lavoro.
Come un ruscello
«Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me»: questa Parola ha illuminato la mia strada. Oggi, a distanza di quarant’anni dalla mia prima professione religiosa, devo dire che mi sento ancora all’inizio della strada che porta alla meta. Spesso, mentre medito davanti al tabernacolo, penso e mi immedesimo nella vita di un ruscello che parte dalla sorgente, dalle montagne, attraversa paesi lontani e diversi, raggiunge il mare. Mi ritrovo proprio come un ruscello di fronte al Maestro che dice: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò». Il mio desiderio è quello di abbandonarmi completamente a Lui per essere trasportata verso la grande meta.
Rose Melkulangara, fsp