Raccontare di me? Io racconto spesso, a me stessa, le mie fantasie, le mie utopie, i miei desideri, i miei compromessi, le mie insicurezze, i miei successi, i miei fallimenti... Ma raccontare di me ad altri non è la stessa cosa.
Ma raccontare di me ad altri non è la stessa cosa. Ci stanno di mezzo la mia immagine, la mia privacy, le mie paure, le mie fragilità, i miei segreti, anche i miei talenti; come pure la consapevolezza che l’opera di Dio in me è vera. In fondo non mi piace, ma ci provo…
Nella mia famiglia sono stata bene, anche se, come tutti, qualche rimprovero posso farlo ai miei genitori. Sono stati figli della loro epoca e la loro prima preoccupazione era quella di insegnarmi a comportarmi bene, a non fare o far fare brutta figura, a studiare per un domani. Un po’ meno mi hanno aiutata a far crescere la mia identità. In ogni modo, sono loro infinitamente riconoscente, perché mi hanno voluta, mi hanno amata e mi hanno favorito una infanzia e una adolescenza serena.
Quando ho incominciato a sentire il desiderio di essere me stessa, e quindi a voler fare delle scelte personali, ecco l’evento, la circostanza che ha fatto dare una svolta alla mia vita. A essere sincera, è stato un puntiglio che ha favorito la mia conoscenza delle Figlie di San Paolo, ed è a questo punto che tutto cambia. Un po’ di lotta interiore e poi la decisione. Di botto. Non ho sentito una voce speciale, ma sono entrata a far parte delle Figlie di San Paolo per una scelta personale; sono così entrata in una autostrada nella quale mi sono avventurata, decisa e quasi cosciente di quello che facevo. Nelle autostrade la possibilità di ritorno non è ad ogni passo, così sono andata avanti senza timori o rimpianti, scoprendo invece novità di vita, percorsi entusiasmanti e panorami meravigliosi.
O meglio, sì, un rimpianto l’ho sentito: la rinuncia a una famiglia mia, a bimbi miei. Ogni volta che lo avvertivo, questo rimpianto era motivo di offerta; ne risultavo sempre felice, e lo sono ancora.
La prima parte del percorso mi ha portata ad Alba. Aria di convento, ma tanta gioia genuina, vera. A Roma sono approdata per il noviziato, con l’attesa di chissà quali regole severe, quali mortificazioni e quanto tempo in ginocchio. Mi ha sorpreso la normalità, la semplicità. Maestra Nazarena è stata la mia maestra di vita. Di lei ricordo non l’insegnamento teorico, ma la sua accoglienza semplice e sincera, il suo esempio di essenzialità e buonumore, con il quale “condiva” anche le cose serie. Saggia astuzia per far registrare meglio nella mente ciò che si doveva ricordare. In noviziato si usava aiutarci nella conoscenza di noi stesse indicando le une alle altre i difetti emergenti. Ne ricordo due: le piace guardare fuori dalla finestra, e: non mangia il pane se non è fresco. Non so perché non ricordo gli altri, e ce n’erano almeno una decina! Di questi due, che non ho drammatizzato, a distanza di anni penso che non fossero “difetti”, ma un qualcosa che nascondeva valori positivi. Il primo mi ha portato a desiderare di guardare sempre oltre il mio piccolo mondo, di aprirmi agli altri, di voler scoprire realtà diverse, valori di vita nuova, a desiderare di conoscere sempre meglio l’ALTRO, conoscere gli altri, conoscere me stessa. Ad appagare il mio desiderio, senza saperlo, certo, è stata Maestra Tecla, quando mi ha invitata ad attraversare l’oceano inviandomi in Colombia. Il secondo, mi accompagna ancora nel desiderio sempre vivo di “nuovo”, di dinamico, di fresco.
A Bogotà avvenne il mio primo approccio con un’altra cultura. Arrivavo carica del mio bagaglio di civiltà, di superiorità e di qualche conoscenza teologica. Desideravo aiutare quella gente povera, considerata meno civile e martoriata dalla guerriglia rurale già in azione nel lontano 1955. Avevo in valigia tutte le risposte pronte. Non pensavo che mi sarebbero state cambiate le domande. Con tutta la delicatezza possibile, come formatrice, ho cercato di comunicare, insegnare, proporre, esigere… Qualcosa attecchiva. Ma in maggioranza erano testate contro un muro. Imparata la lingua, ho capito qualcosa in più. Ho capito che prima di tutto era necessario cercare di conoscere la loro storia e le storie personali; era necessario cercare di capire la loro cultura, il loro modo di guardare la realtà, di considerare eventi e persone… Il mio bagaglio, le mie conoscenze, ai quali ero afferrata, non rispondevano adeguatamente. Oltre al fatto che nulla potevo fare senza l’ALTRO.
In questa ricerca, durata anni, non giorni o mesi, qualcosa in me si è andata sciogliendo e mi sono trovata conquistata e coinvolta io stessa. Non è stato facile cambiare, rinunciare alle mie sicurezze. Qualcosa resisteva dentro, in lotta con il desiderio di essere una di loro, come Gesù che si è fatto uno di noi.
Mi sono lasciata fare, e ho scoperto valori e ricchezze che potevo assumere perché non toglievano nulla a quello che ero, in cambio mi arricchivano di ciò che non avevo. Quando credevo di aver capito qualcosa, di aver assunto una mentalità meno legata a regole e leggi nate con me, conservando i valori essenziali; quando avevo imparato a star bene in questa nuova realtà, sono stata chiamata a guardare ancora fuori dalla finestra.
La Paz mi ha accolto con il suo panorama da fiaba, specialmente di notte, adagiata su un altopiano, sotto un cielo azzurro profondo, con il “Nevado dell’Illimani” da sfondo, e con la gente vestita con grandi gonne dai mille colori. Ero sempre in Latino America e credevo di essere ormai esperta. Mi sono dovuta ricredere. Ho trovato una comunità maggiormente immersa, apostolicamente, nel mondo indigeno, ma in sé ancora “italiana”. Qui mi raggiunse la brezza del Concilio Vaticano II, della Conferenza di Medellin. Tempi belli di rinnovamento, ruminato, macinato e condiviso con altri religiose e religiosi, nella ricerca di una espressione della fede e della missione sempre più vera e autentica. Arricchito il mio bagaglio con questa esperienza e desiderosa di farla diventare vita, ecco che si apre un’altra finestra: Buenos Aires. Sempre LA, ma quanto diversa…
Nei miei primi giorni, in questa altra LA, trovandomi in un incontro tra sorelle, invitata a dire come mi sentivo, senza pensare molto dissi che per la terza volta mi trovavo sradicata e smarrita, capivo che avrei dovuto prima guardare, osservare, capire e solo dopo avrei potuto sentirmi a mio agio, e in condizioni di dire, di collaborare, di fare qualcosa. Veloce e illuminante è stato il gesto della mia vicina. Prendendomi il braccio e tenendolo stretto mi disse: «Grazie! È questo che vogliamo. Non vogliamo che tu venga a portarci qualcosa. Vogliamo che prima tu ci conosca, per poi poter dialogare e lavorare insieme». Ancora una volta sono stata invitata a guardarmi dentro, a mettermi a confronto, a cambiare parametri, a far morire qualcosa per far posto alla “novità” che mi era offerta ancora.
Non finiscono qui le mie finestre. Bogotà mi riaccoglie, e torno a camminare sui passi già fatti. Ritrovo, oltre alle persone nuove, persone conosciute, persone amiche, ma diverse da come le ho lasciate. Io pure non sono la stessa, perché la storia mi ha trasformata; e loro non sono le stesse perché il tempo le ha aiutate a crescere. Ci raccontiamo le nostre storie e ci scopriamo più umane, più mature, più padrone della nostra vita, più solidali, più desiderose di camminare insieme.
Ancora una finestra: il rientro in Italia. Doloroso e comprensibile solo a chi l’ha vissuto. Non è un rifiuto per la mia terra, per la mia gente: è lo strappo di dentro che duole. Il cuore è debole. Non ho rimpianti. Ancora una volta ho trovato chi mi ha aiutato a crescere, chi mi ha formato per il rientro, non fisico o di luogo; si trattava del rientro in un ambiente, in una cultura che avevo lasciato molti anni prima, non più gli stessi di allora.
E ora sono qui. Forse si potrà dire che con tanti cambi e trasformazioni non sia più io… Assolutamente no. Sono sempre io, felice di questa vita vissuta così. E’ una utopia, ma se avessi un’altra vita, vorrei partire dalla esperienza di oggi, e continuare a crescere. Vorrei una vita più autentica, più vera, più libera segnata da motivazioni mature, attenta al cammino dell’umanità, sempre piena di stupore per l’appassionante forza creatrice di Dio e sempre nella ricerca della “novità di vita”. È sempre desiderio di pane fresco, di “novità”. È sempre voglia di guardare oltre. Ora, parafrasando A. Solzenicyn posso dire: «Mi volto indietro, e mi riempio di stupore guardando la strada percorsa dall’inizio fino ad ora, e rendo grazie al Signore, perché mi ha dato la gioia di scoprirmi sempre nuova, la gioia di crescere e di comunicare un riflesso della sua luce».
Ho sentito gioia raccontandomi. Per chi mi legge forse sono stata poco interessante. Il mio racconto può sembrare superficiale. Sì, lo è. Il racconto vero, quello del mio rapporto con Dio, quello dell’opera sua in me è il “segreto del Re”.
Oggi mi sento come un pulcino che dà le ultime beccate per uscire dal guscio. Non ho finito di nascere.
Teresita Conti, fsp